Nel caos del mondo, l’artista è la persona con la lente d’ingrandimento che dice alle altre persone di fermarsi. E osservare.
Beatrice è una giovanissima artista con la quale ho avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata. Possiede delle qualità che a nessuno – ma in particolar modo a chi sceglie di lavorare in questo campo – dovrebbero mancare: curiosità, entusiasmo, voglia di mettersi in gioco e consapevolezza del fatto che non è un settore come tanti altri.
Chi sceglie la via dell’arte (e non solo quella che prende posto davanti ad un cavalletto) deve sapere a cosa va incontro: una strada piena di ostacoli, attese, momenti bui in cui ci si chiede se era davvero questa la scelta giusta. Io ho avuto molti momenti così. Credo li abbia chiunque. Ma parlare con persone come Beatrice mi restituisce la speranza, mi fa capire che abbiamo bisogno di questo, di essere felici di quello che facciamo anche quando sembra una strada a senso unico. E abbiamo bisogno di dirlo ad alta voce, raggiungere più persone possibili, scontrarci a volte con un mondo che ci vuole sempre a rincorrere il successo. Qualunque cosa significhi questa parola.
Raccontami di te, dove ti sei formata e che percorso hai fatto o stai facendo?
Ho 21 anni e sono di Bergamo, ho studiato lì al liceo artistico che è un’ex scuola d’arte e mi ha quindi dato molte basi pratiche. Queste basi mi sono servite perché ho poi deciso di scegliere l’arte come mestiere, ho proseguito all’Accademia di Belle Arti di Brera, mi sono quindi trasferita a studiare a Milano. Attualmente ho quasi concluso il triennio, mi devo ancora laureare. Ho scelto l’indirizzo di scultura, anche se non è una cosa che vedo in senso assoluto; sia l’Accademia che la mia attitudine personale mi portano a credere che l’artista debba sempre operare con più tecniche possibili. Cerco di spaziare molto.
E in effetti dalle tue opere risulta evidente. Trovo ammirevole la volontà di spaziare tra generi molto diversi fra loro; denota una grande curiosità che a parer mio è una qualità essenziale per un artista. Cosa ti spinge a sperimentare una tecnica in particolare? Con quali criteri decidi cosa affrontare?
In realtà non c’è una risposta precisa a questa domanda…le idee mi arrivano come sensazioni, come immagini, oppure mi vengono trasmesse da un materiale. Tendenzialmente mi piace pensare che ogni mezzo ha il suo modo per dire una certa cosa, quindi dipende da come la vuoi dire. Un po’ come scrivere una frase in corsivo o in stampatello, sussurrarla o urlarla. Come una lingua che parla alle persone, ma anche alle opere stesse. Per esempio, ci sono lavori che funzionano benissimo in fotografia ma che in scultura non rendono, hanno bisogno dell’occhio fotografico. Altre volte invece succede il contrario: ci sono sculture praticamente impossibili da fotografare. Io penso sia proprio un linguaggio, e mi ci muovo molto liberamente: amo la performance ma ho anche una grande ammirazione per gli artigiani e il loro modo di tirare fuori il potenziale da ogni materiale. Poi sono anche molto incuriosita dal nuovo mondo del 3D e del digitale, tutte le nuove tecnologie che stanno nascendo mi attraggono.
Anche l’arte deve stare al passo coi tempi.
Assolutamente. Io credo che l’artista debba essere sensibile alle cose che succedono nel mondo, nel suo tempo. Non deve arroccarsi sulle sue posizioni intellettuali, chiuso nel suo studio, altrimenti resta soltanto un cimelio o un continuatore di una linea artistica che è già morta da anni.
Fra tutti i linguaggi espressivi che hai sperimentato fino ad ora, ce n’è uno in cui ti ritrovi particolarmente, che senti più tuo?
Se c’è, è quello scultoreo. Mi piace tantissimo lavorare con i materiali, soprattutto con la creta perché lo ritengo un materiale molto versatile. I miei primi lavori sono stati realizzati in creta cruda, che va molto bagnata e poi lasciata asciugare velocemente; in questo modo si spacca, si deforma. Quindi ho lavorato tanto con la creta, ma ne ho cotta pochissima! Ho una predilezione per la terra, per gli elementi naturali. Altra tecnica che ho utilizzato tantissimo, ma che non so se riesce a farmi esprimere al massimo, è la postproduzione fotografica. Adesso sto sperimentando anche nel campo dell’animazione e delle nuove tecnologie. Ho visto che in questi ultimi anni si sta sviluppando un grande potenziale in questa direzione, e vorrei lavorarci su. Ma c’è una parte di me che non riesce a staccarsi dalla componente fisica, dalla manualità, anche con materiali come il marmo ed il metallo. Sono dei bagagli artistici a cui tengo tanto, anche se sto cercando di reinventarli perché la scultura dell’ultimo secolo – tranne casi molto rari – ha un po’ sofferto. Ma è un mezzo molto potente. Si crea una specie di dialogo con il mondo.
Vortice
2018
Creta cruda
Per gentile concessione dell’artista
Cratere
2018
Creta cruda
Per gentile concessione dell’artista
Proprio per questa grande varietà di tecniche, nei tuoi lavori non ho potuto fare a meno di notare il contrasto fra due aspetti in particolare: quello della manualità e quindi dell’artigianato (i lavori in creta) e quello di elementi in qualche modo di produzione industriale (il Frammento luminoso). Immagino ti abbiano dato sensazioni molto diverse nel lavorarci, ti va di parlarmene?
Sono due esperimenti molto diversi. Secondo me soltanto un artista molto capace riesce a fondere queste due cose in un equilibrio perfetto. Con il Frammento luminoso mi sono concentrata sul voler raccontare una storia, è stato un tentativo di slegarsi dall’aspetto artigianale, manuale, per poter riuscire a creare una storia e una sensazione completamente diversa. Il pezzo è realizzato in materiale industriale, ma ho voluto utilizzarlo quasi come una fiaba, un racconto, perché riflette il mondo circostante. In certi momenti l’ho voluto narrare quasi come un elemento alieno che spia l’umanità, la terra. I lavori con la creta sono del mio primo anno in Accademia, mentre il Frammento luminoso è del terzo. In questo percorso che ho fatto c’è la volontà di dimenticarmi per un attimo della manualità, per quanto importante, per poi ricordarmene meglio. Diciamo che è stato un po’ tutto il percorso che ho fatto in questi tre anni: imparare a dimenticarmi chi sono e perdermi in questo mondo di narrazione, nel mondo esterno, il mondo che ci circonda, per poi tornare al mio lavoro con maggiore consapevolezza. L’Accademia mi ha insegnato molto ad astrarmi per poi tornare sulla terra in modo più consapevole.
Frammento luminoso
2020
Acciaio lucidato 5x5x25 cm
Per gentile concessione dell’artista
Guardando il Frammento luminoso è impossibile non pensare a dei richiami alla minimal art. Ti va di approfondire questo aspetto? L’importanza del potere riflettente dell’oggetto, nella tua opera ha un valore più in relazione allo spazio circostante (proprio come nella minimal art, per esempio in alcuni lavori di Donald Judd), o per la compartecipazione dell’osservatore che si riflette in esso (come nei quadri specchianti di Michelangelo Pistoletto)?
Più che il riflesso di chi guarda nell’oggetto, è proprio l’oggetto ad essere il centro. L’osservatore è quasi colui che lo scopre, perché l’oggetto luminoso si posiziona nello spazio quasi a volersi mimetizzare. L’osservatore è come la macchina fotografica che riesce a rintracciarlo nella realtà. Mi sono un po’ ispirata a chi ha già sperimentato in questa direzione ma ho sempre cercato di trovare un tratto mio, un mio modo di vedere le loro opere.
Del resto è giusto che sia così, altrimenti si ridurrebbe tutto alla pura imitazione. Hai comunque dei modelli di riferimento? Sia a te contemporanei che del passato.
Questo è un po’ il mio tallone di Achille: è tutta la vita che cerco un maestro, ma sento di non averlo ancora trovato. Non so se sia una cosa positiva o negativa. Gli artisti che mi hanno colpito sono molto vari, e continuo sempre a scoprirne di nuovi. Per esempio, appena entrata in Accademia c’è stato Brâncuși, non solo per le sue opere ma anche lui come personaggio particolare, profetico, misterioso. In quel momento era il modello di artista a cui volevo ispirarmi, poi in realtà è cambiato tutto. Mi sono accostata anche a Fontana, mi interessava il suo voler essere in contatto con gli artisti giovani, la sua freschezza, il suo essere sempre aperto alle idee. Mi è capitato altre volte con altri artisti, per esempio quando ho conosciuto Giovanni D’Anselmo e la scultura che mangia…quando ho visto quell’opera mi sono detta “è questa la mia vita!”, bellissima, ironica, prepotente. Oppure quando ho conosciuto Cindy Sherman e i suoi lavori, ho pensato “ho sbagliato tutto, è lei!”.
Io la vedo come una cosa positiva: in questo modo ti metti sempre in discussione e magari il tuo maestro deve ancora arrivare.
Sì, ma io penso anche che il tempo del “maestro” con la sua bottega e un pupillo a cui passare il suo mestiere sia un po’ finito. Credo sia invece iniziato il tempo del dialogo fra gli artisti, la mia aspirazione è proprio poter parlare con più artisti possibili a me contemporanei, e poter instaurare un dialogo con loro. Questa è per me la cosa più importante, quindi forse non mi serve un maestro.
Per quanto riguarda la fotografia invece, su cosa basi il tuo intervento? Cosa cattura di più il tuo interesse? Mi ha molto colpito l’aspetto auto narrante del dettaglio.
Mi sono avvicinata a questa cosa tramite un altro lavoro fotografico che ho esposto in Accademia, davanti al quale un collega mi ha fatto riflettere proprio su questo aspetto. Mi ha fatto notare che differenza avrebbe fatto se io avessi presentato una fotografia di un dettaglio ingrandito. Mi sono quindi accorta di come un piccolissimo dettaglio della realtà possa raccontare una storia incredibile, anche la cosa più piccola. Quindi da lì è nato questo esperimento in cui ho voluto rendere un dettaglio di una foto una storia a sé stante. Poi ho aggiunto degli interventi di postproduzione perché mi piace mettere un mio segno, penso che quel tocco in più sia fondamentale. Quindi questo lavoro è nato dal voler cercare nei dettagli delle nuove storie, vedere una foto in un modo completamente diverso. Si possono creare diversi strati di narrazione. Molto semplice, ma è uno dei miei lavori preferiti. Oltretutto l’ho stampata sulla rosaspina che dà una sua storia alla foto, è una texture interessante. Una carta lucida avrebbe reso il racconto più patinato, così invece risulta quasi fiabesco. Questa è l’importanza del materiale, come dicevo prima. Il linguaggio fisico mi interessa particolarmente e forse è per questo che ho scelto l’indirizzo in scultura, un linguaggio più diretto e più aggressivo rispetto ad altri. L’idea di poterlo rendere più delicato o più forte mi incuriosiva.
Ciotola
2020
Stampa serigrafica su carta rosaspina, foto e disegno digitale
100×70 cm
Per gentile concessione dell’artista
Credo anche che questa visione macroscopica del dettaglio abbia dei richiami metaforici ad altro. Se ci pensi è così anche nella vita: quando guardiamo il quadro d’insieme ci perdiamo la bellezza delle piccole cose.
Sì, io credo che nel caos del mondo l’artista sia la persona con la lente d’ingrandimento che dice alle altre persone di fermarsi. E osservare.
Di chi è quella “resistenza all’idea di soluzione”? La frase è tua? Raccontami la sua storia.
La frase viene da un lavoro che ho fatto sulle scritte, partendo da una ricerca sul mondo dell’arte nel periodo di protesta degli anni ‘70. Ho trovato delle frasi che sembravano proprio degli slogan, in alcuni saggi artistici. Volevo che questi concetti tornassero a vivere attraverso una mia immagine. È un lavoro che non so se porterò avanti, o se magari continuerà con delle frasi mie. Però è nato così e ho voluto mantenerlo perché è stato un passaggio importante. Quindi non sono frasi mie ma rivisitazioni; volevo che queste proteste tornassero a vivere attraverso i miei lavori.
Senza titolo
2019
Mattonella e pittura spray, fotografia digitale
Per gentile concessione dell’artista
A proposito di protesta, o forse ancora meglio di denuncia, in “Habitat cittadino” c’è ovviamente un riferimento all’attualità. Cosa ti ha turbato di più di questa situazione? Volevi che questo messaggio passasse attraverso il tuo lavoro – può trattarsi di un’opera di denuncia in qualche modo?
È un lavoro molto malinconico. Un richiamo alla città, a piccoli sguardi che ho rivolto all’habitat cittadino appunto, che poi è il mio habitat. Sono visioni di un contesto che in effetti blocca un po’ la persona. La denuncia c’è ma è sottile, non mi piace l’arte contemporanea che punta allo shock. Secondo me non è quello su cui bisogna puntare adesso, anche perché con tutte le immagini scioccanti che vediamo ogni giorno stiamo andando verso un insensibilità più che verso l’arte che sensibilizza. Una cosa erano gli anni ‘70, in cui era necessario scuotere gli animi. Quei tempi però sono finiti, adesso c’è bisogno di dire altro, di dare uno straniamento ma deve essere l’osservatore a rifletterci su, e capire a cosa porta. Le immagini dovrebbero essere come un punteruolo che pungola le persone.
Habitat cittadino
2020
Postproduzione fotografica
Per gentile concessione dell’artista
Hai toccato un aspetto molto interessante, perché il problema del contemporaneo spesso è proprio questo: si pensa che basti che faccia scena, che sconvolga, che faccia parlare di sé. Secondo me invece non è quello il punto, l’arte ti deve far riflettere su un determinato tema senza necessariamente sconvolgerti.
Sì, diciamo che si sta andando verso una spettacolarizzazione, un teatrino di scandali da prima pagina. Ed è un peccato, perché di intrattenimento ne abbiamo anche troppo. Stiamo sfatando un sacco di miti, è all’ordine del giorno che personaggi pubblici o politici si mettano in ridicolo. Se anche l’arte si mette su questa linea non va bene…l’arte deve essere un po’ il pungolo della società, disposta anche ad andare nella direzione opposta per far capire una determinata cosa alle persone. È un po’ questo il problema: stiamo prendendo la via che prendono tutti.
E per il futuro, invece, cosa ti auguri? Per il futuro dell’arte in generale, ma anche della tua in particolare.
Ne ho tantissime, di speranze…è il bello di essere giovani! Ci sarà il tempo per il cinismo, ma non è adesso. Quello che mi piacerebbe per il mio futuro è di non avere paura. Sento tanto, soprattutto fra i miei coetanei, il terrore nei confronti del futuro e di cosa si farà della propria vita. Secondo me se si sceglie di abbracciare la strada dell’arte bisogna capire che si deve andare un po’ controcorrente, bisogna essere disposti ad andare da soli. Non è detto che la strada adatta a me sia quella che mi da più soldi o più fama. Molti giovani si arrendono a quella che è la società di adesso, pensando “va bene, finché questo mondo fa entrare anche me, mi accontento”. Invece no, bisogna colpire la gente con quello che sei tu, non con quello che loro vogliono che tu sia. Il mio grande sogno per l’arte contemporanea è che diventi un po’ più aperta, di non lasciare fuori le persone, di diventare un po’ più silente magari. Parlare di meno, ma meglio. Io per esempio prima di produrre un lavoro ci metto del tempo, c’è chi sforna opere in continuazione.
Questo vale un po’ per tutto, la quantità e la qualità non vanno molto spesso di pari passo. Ragionare di più su un’opera magari implica una certa cura, un certo rispetto per l’opera stessa.
Ecco, una cosa che è stata tanto dimenticata è proprio la cura. C’è una frenesia, una tendenza a dire “ma sì va bene così, basta che funzioni”. Invece no, c’è bisogno di moltissima cura perché l’arte torni a parlare alle persone, e le persone vanno trattate con cura. Spesso, infatti, c’è proprio un rifiuto nei confronti dell’arte contemporanea. La gente viene lasciata fuori, e si ritrova quindi a pensare “non la capisco”. Mi rendo conto sia molto faticoso, ma se non si impegna l’arte chi lo fa?
Hai fatto qualche esperienza espositiva?
No. So che può sembrare strano, anche perché l’Accademia dà tante possibilità. Non le ho mai sfruttate bene, perché c’è sempre questa idea che bisogna “lanciarsi”. Ma se mi fermo un attimo a pensare, mi rendo conto che non è quello che voglio in questo momento, non sono pronta a gestire un’esposizione o un discorso sui miei lavori. Soprattutto in questi primi anni di studio sento la necessità di lasciare sedimentare quello che ho fatto. Già adesso vedo con un occhio diverso quello che ho realizzato il primo anno. Per me è molto importante la sedimentazione, guardarmi indietro e rifletterci su. Non voglio ancora buttare nel mondo quello che ho fatto, voglio darmi la possibilità di pensare che magari potevo fare in modo diverso, e magari la prossima volta farò in modo diverso. Non è detto che sia quello il modo in cui volevo che la mia opera parlasse. Appena finirò l’Accademia cercherò qualcosa in questa direzione, per poter esporre da qualche parte. Ma non voglio mettermi sin da ora quest’ansia del successo, perché credo sia degradante. Mi è capitato di incontrare tante persone che sono tornate nella mia classe in Accademia per raccontare la loro esperienza fuori, e mi sono resa conto che in realtà le occasioni sono tante, non è vero che se passa il treno e non lo prendo poi è finita. L’importante è salire su quello giusto, senza saltare sui treni a caso!
[Questo articolo è frutto di una collaborazione con Bimble, una realtà che ha l’obiettivo di promuovere artisti emergenti e metterli in contatto con locali che possano accogliere le loro esposizioni.]
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