L’equilibrio degli opposti | Intervista a Tamara Pillosu

Lo stato delle cose è in equilibrio dinamico. I miei quadri, infatti, un po’ si decompongono in quest’acqua che cola. Io amo questa fluidità, noi stessi siamo fluidi e portati al cambiamento e ad andare oltre determinate cose, pur mantenendo la nostra peculiarità che non potrà mai svanire. Credo sia importante, bisogna ricordarselo.

I suoi dipinti hanno catturato immediatamente la mia attenzione. C’è stato qualcosa, non so bene cosa, che mi ha suggerito fosse il caso di indagare. I suoi corpi e le sue pennellate hanno smosso dentro di me l’urgenza di conoscere chi ci fosse dall’altra parte. Perché a volte ce ne dimentichiamo, vediamo solo l’opera. Ma dall’altra parte c’è sempre qualcuno, con la sua storia, i suoi desideri e i suoi tormenti.

Oriente e Occidente, femminile e maschile, fragilità e forza, calma e velocità, pieno e vuoto, razionalità e caos, luce ed ombra…la pittura di Tamara Pillosu è densa di contrasti che trovano il loro equilibrio sulla tela. Proprio lì, dove tutto acquista un senso. Mi ha detto che nel disegno ha trovato la sua pace. Credo che, osservando le sue opere, possiamo trovarla tutti.

Dove si è formata e che percorso di studi ha fatto? 

Classe ’73, vengo da un piccolo paese vicino Cagliari, in Sardegna. Ho frequentato sempre scuole artistiche, quindi ho avuto una formazione tradizionale. Ho studiato presso il liceo artistico di Cagliari, dove ho avuto degli insegnanti eccezionali che ricordo sempre con grande affetto e che hanno permesso che sviluppassi ulteriormente la mia passione per l’arte. Ho proseguito a Milano, presso l’Accademia di Brera, con l’indirizzo in pittura. Poi c’è stato un periodo della mia vita in cui ho vissuto in Francia, a Parigi, dove ho fatto un altro tipo di percorso e ho lavorato con la videoarte nel mondo della musica. Ed è proprio in Francia che inizia questa fase della mia arte, quella che io chiamo “serie occidentale”.

C’è un motivo in particolare per cui ha scelto la pittura e non altri linguaggi espressivi?

Semplicemente perché ci sono nata, ho iniziato a disegnare a due anni. Ero una bambina molto pestifera, incontrollabile, avevo bisogno di sfogare tutta questa energia e creatività. Nel disegno ho trovato la mia pace. Passavo molto tempo da sola, trascorrevo ore ed ore a disegnare qualunque cosa mi capitasse sotto tiro. Poi ho iniziato a dipingere ad olio verso gli otto anni. Era veramente inconscio, innato, non potevo che fare questo. Non avevo altri interessi, e per questo ero un tipo molto solitario. È una cosa che richiede tanto tempo e tanta introspezione, per un bambino non è certo semplice. Anche mio padre, estremamente intuitivo, mi diceva che era il mio lavoro, che dovevo fare questo. Chiaramente ho avuto dei momenti difficili, quando mi sono trasferita a Milano per esempio non è stato semplice confrontarmi con quel tipo di cultura. Ma, nonostante tutto, è stata la scelta giusta.

Queste sono tutte opere che attingono a piene mani dalla mitologia greca. Ha sempre lavorato su questo o è solo una serie?

Non ho sempre lavorato su questo, è una serie. L’origine del progetto risale agli anni ‘90, e tutto è partito dall’altra parte del mondo: dall’Oriente. Ho sempre lavorato sui segni, sulla calligrafia. La mia passione innata per l’Oriente non so bene come spiegarla, è possibile che abbia un collegamento con la cultura sarda, c’è qualcosa di arcaico e primitivo in questo. Ho quindi iniziato a lavorare sugli ideogrammi, ma al termine di questa prima fase di lavoro ho sentito l’esigenza di trovare le mie radici. Parlo di quelle radici che ci insegnano anche a scuola, un’iconografia di riferimento dalla quale non si può prescindere. La mia però non è una cultura classica, è molto casuale: ripesco la cultura latina, la cultura classica greco-romana cristiana, casualmente, a seconda di quello che mi capita nella vita di tutti i giorni. Inizio un quadro in determinati momenti della mia vita, colgo dei significati, una morale, dei pensieri che ho riguardo quel particolare momento, delle riflessioni su determinate cose che vivo nella vita di tutti i giorni. Poi vado a cercare informazioni, indizi su alcuni nomi e inizio a studiare. Stranamente rispecchiano quello che io vivo in quel momento. Inizio ad inglobare questi miti, iniziano a fare parte di me. Un po’ come l’inconscio collettivo che ci appartiene. Ma sotto la cultura classica dei personaggi…io inizio il lavoro con degli ideogrammi. 

Quindi le pennellate, questi segni…sono in partenza degli ideogrammi?

Sì, esattamente. Non è una cosa che si può cogliere ad una prima occhiata, si colgono solo i riferimenti al mondo classico ed un certo movimento nella composizione.

Sono personaggi ed episodi che hanno molto spesso fatto parte della produzione di artisti del passato, soprattutto nell’arte moderna si vedono molti esempi. Ha usato come modello di riferimento qualcosa del passato?

Sì, io estrapolo molto da artisti come Guercino, Guido Reni, Sebastiano Ricci, Paolo Finoglio, i Carracci. Per fare un esempio: il Crono Saturno è tratto da un quadro di Rubens – un pittore fiammingo ma pur sempre della cultura occidentale. A volte estrapolo dei brandelli di corpo da questi artisti. Dal 2012 ho iniziato a lavorare anche sui caravaggeschi e Caravaggio. Queste opere hanno avuto un buon successo in Francia, ne ho vendute diverse. In Italia invece ho avuto più difficoltà, forse non siamo pronti o forse sono cose che diamo troppo per scontate perché fanno parte della nostra cultura e per assurdo ce ne dimentichiamo. Ho dei riferimenti anche nella pittura orientale, in particolare Sesshū Tōyō, un pittore monocromatico di Kyoto, un monaco zen. Infatti c’è molto zen alla base di questi quadri.

Crono Saturno, 2017
acrilico su tela
100 x 70 cm

Per gentile concessione dell’artista

Peter Paul Rubens, Saturno divora uno dei suoi figli, 1637-1638

Io ho esigenza ed urgenza del segno. Non è qualcosa di mentale o intellettuale, ma di fisico. Mi fa stare bene. Nero su bianco, è il punto di partenza su cui poi si lavora, anche con l’acqua. L’acqua è un altro elemento importante. Inizio così, in maniera zen: nel silenzio più totale, con calma ma anche nella velocità; questi quadri non hanno più di un giorno e mezzo di lavoro. Non possono e non devono avere più tempo. Il principio è lo stesso della pittura orientale: si inizia velocemente, con la concentrazione, e quel momento per me è il baratro. Se sbaglio è finita, devo buttare il quadro. Se non vibra, se l’idea non è impressa in maniera veloce devo buttarlo. L’energia deve essere quella, qui e ora. Come nella cultura orientale il soffio, il respiro, lo spirito…la scena, il pennello e l’inchiostro. Questo ci deve essere tutto, perché devo cogliere l’essenza ma ci deve essere anche un aspetto esteriore. In base al segno, emerge l’immagine e anche l’esperienza che sto vivendo in quel momento. A quel punto faccio una ricerca e vado a cercare quell’iconografia, di solito sono sempre gli stessi pittori, evidentemente c’è un legame, comunque sono sempre del ‘600 o fine ‘500. Un periodo magico, per me. Vedo il nome del personaggio, il mito, mi ci ritrovo e vado sopra ma non disegno, ci sono solo pieni e vuoti. Sono masse. Spesso sono acquerelli, a volte tempere, acrilici…non uso mai l’olio se non per qualche eccezione. Uso sempre la trementina come se fosse acqua, la faccio colare, l’immagine quindi è sempre fluida, in movimento, si asciuga velocemente. A questo punto vengono fuori le luci – e qui emerge anche la mia esperienza di light designer. Ed ecco che viene fuori l’immagine, la carne. La mia palette cromatica è più o meno sempre la stessa, quasi come se fosse della materia della scultura. A volte c’è il busto, a volte solo la testa: simboleggiano il cuore e l’anima, la nostra sofferenza, della nostra cultura, che poi forse è la mia sofferenza personale in un determinato momento. Ho bisogno di tirare fuori questa cosa sulla base primitiva del segno; c’è il sentimento e il desiderio di dinamizzare l’immagine fisica del corpo umano che spesso nei miei dipinti soffre. E poi sono tutti uomini. Può sembrare strano, visto che io sono una donna.

Io non lo trovo strano. Credo sia del tutto relativo, in fondo ognuno di noi ha una parte maschile ed una femminile dentro di sé. 

Sì, è proprio così.

Ha mai raffigurato donne, nella sua produzione?

Solo il primo della serie era la rappresentazione di una donna. Ma non è la parte femminile che devo raccontare, devo raccontare quella maschile perché sta soccombendo giorno dopo giorno, anche se diciamo il contrario. Ha i suoi enormi difetti, ma anche la sua valenza, la sua forza, è simbolo di volontà, di saper gestire il potere. Per me la parte maschile è proprio questo: volontà, potere, voglia di imporsi e di riuscire a creare con l’etica, con l’intelletto. Ma i miei sono comunque sempre corpi androgini, non riesco a vederli in modo “mascolino”: li sto femminilizzando, sono tra il maschile e il femminile. Per me questo è l’uomo del futuro! C’è una fantastica fusione tra il maschile e il femminile, così come tra l’Oriente e l’Occidente.

Questa serie, però, si chiama “serie occidentale”.

Sì, perché per me è la fotografia dell’Occidente di adesso. In qualche modo è successo che l’Oriente si amalgamasse, si fondesse con esso. Il caos e la razionalità, sono due culture completamente opposte ma qualcosa – o qualcuno – ha voluto che si fondessero perché poi nascesse qualcosa di diverso. L’anno scorso ho riflettuto su questo: mi sembrava quasi che per l’Occidente fosse finita, ci stiamo dimenticando dei nostri miti, i giovani li studiano ma non li ricordano. Li diamo per scontati. Non ci ricordiamo della nostra etica, della morale, della costruzione sociale che fa riferimento ai padri fondatori. E invece no, resistono! Si oppongono alla cultura orientale. Lo stato delle cose è in equilibrio dinamico. I miei quadri, infatti, un po’ si decompongono in quest’acqua che cola. Io amo questa fluidità, noi stessi siamo fluidi e portati al cambiamento e ad andare oltre determinate cose, pur mantenendo la nostra peculiarità che non potrà mai svanire. Credo sia importante, bisogna ricordarselo.

Il senso di fluidità, a livello tecnico, penso sia accentuato dall’acqua e dall’elemento molto liquido. Il colore che cola sulla tela dà ulteriormente questa sensazione.

Esatto. Ci sono delle zone più “dense”, dove la materia si mantiene, in cui è più presente il controllo razionale del caos, qualcosa che ancora resta nella sua vitalità con la sua struttura. Poi ci sono dei vuoti, con i corpi classici che perdono definizione, è lì c’è la lotta, è il corpo che combatte e cerca di portare tutto ad uno stato di estremo caos, forse di oblio. Mi piace questa dinamicità e questo equilibrio, spero si mantenga perché in questo modo tramandiamo alle prossime generazioni la nostra storia, che è una grande ricchezza. Il mio lavoro, nel mio piccolo, è anche questo. Almeno ci provo. 

Vorrei condividere una mia impressione: nonostante le figure non abbiano i lineamenti del volto (o forse proprio per questo), risultano estremamente umane. Sono tutte figure mitologiche, divinità in certi casi, ma sono rappresentate come degli esseri umani e credo che in ogni opera ogni personaggio sia colto proprio in un momento della sua storia in cui esce fuori un lato umano. Per esempio, mi ha colpito Hermes chino sul flauto di Pan.Vuole dirmi qualcosa in più su quest’opera?

Ogni opera è una fotografia di un mio momento personale, di un’esperienza che vivo e di persone che conosco, quindi sono anche dei momenti di fragilità e di riflessione. Io chiamo la divinità – e in questo senso intendo anche Hermes – come se stessi chiedendo aiuto. Sono cristiana, ma per me questi archetipi sono talmente forti, ma al tempo stesso talmente fragili ed umani che chiedo loro aiuto. E il mio modo di sentire, di provare i sentimenti con il mio essere donna, cerco di trasmetterlo nelle opere. Imprimo questa parte femminile nei corpi maschili, voglio far capire che siamo fragili ma al tempo stesso forti; questo continuo lottare nonostante tutto significa che siamo resilienti. Hermes, nel mio quadro, per me è una persona. Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui ho pensato a lui e ho creduto mi portasse dei messaggi. Spesso, quando realizzo le mie opere, vedo delle persone che sono delle entità. Una cosa assolutamente istintiva e primitiva, ma li sento proprio, anche fisicamente, accanto a me. Del resto è così che li vedevano anche i greci e i romani, erano molto presenti nella vita di tutti i giorni. Anche quando dipingo il Cristo, non lo vedo come qualcosa che viene dall’alto, filtrato dalla teologia; per me è proprio qui, è parte di me.

Hermes e il flauto di Pan, 2017
acrilico su tela
77,5 x 95,5 cm

Per gentile concessione dell’artista

Christós II, 2016
acrilico su tela
30 x 60 cm

Per gentile concessione dell’artista

Sempre riguardo al fatto che il volto non costituisce un elemento centrale delle sue opere, in alcuni casi le pennellate lo coprono del tutto – come in Prometeo. Si tratta di una scelta ben precisa?

Sì, credo lo sia, anche se inizialmente è qualcosa che avviene in modo inconscio. Perché nella vita di tutti i giorni non siamo del tutto coscienti. Non dico che non ci sia razionalità, ovviamente, ma la coscienza è un’altra cosa. In certi casi, sui volti, aggiungo dell’olio di lino e poi ci lavoro con il pennello creando l’ideogramma. A volte viene fuori il profilo, come in Polluce, si delinea quasi da solo. Per esempio, in Eracle (che io chiamo “Era clé”, perché in francese clé vuol dire chiave, quindi “era la chiave”), non c’è un vero volto ma viene fuori lo stesso in qualche modo. Come se fosse una dimensione in più. Apparentemente non riusciamo a vedere, ma qualcosa c’è. È come se avesse diversi strati di percezione, viene fuori e ti parla. Quando sento che il quadro vibra, per me è vivo. Esiste. 

Prometeo, 2017
acrilico su tela
60 x 120 cm

Per gentile concessione dell’artista

Eracle, 2019
tempera su tela
60 x 80 cm

Per gentile concessione dell’artista

In alcune opere, invece, sono raffigurati solo i torsi. È più per un riferimento agli esempi di statuaria che all’episodio mitologico in sé?  

Sì, sicuramente c’è anche un amore smisurato per le opere scultoree antiche, linguaggio che fra l’altro mi piacerebbe affrontare e con il quale sto già facendo qualche tentativo. I torsi per me sono importanti, sono un universo intero perché è lì che risiedono l’anima e lo spirito.

Laocoon, 2014
acrilico su tela
60 x 80 cm

Per gentile concessione dell’artista

Cosa spera per il futuro dell’arte, e per la sua in particolare?

Non ho troppe aspettative, la mia speranza è semplicemente lavorare e continuare i miei progetti consapevolmente e bene. E poi guardare la vita con occhi diversi, indagare. Mi auguro anche che le donne possano essere valutate come artiste, perché spesso nelle mie esperienze espositive ho constatato che l’arte sia ancora vista prevalentemente al maschile. Noi dobbiamo lavorare il doppio per avere gli stessi riconoscimenti degli uomini, ma ci stiamo fondendo con la società maschile e dobbiamo mandare dei messaggi forti che devono essere ascoltati. 

[Questo articolo è frutto di una collaborazione con Bimble, una realtà che ha l’obiettivo di promuovere artisti emergenti e metterli in contatto con locali che possano accogliere le loro esposizioni.]

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